giovedì 30 gennaio 2020

La Narada – Nuova ipotesi sull’origine del mito


di Francesco Marcianò
Dalle acque dello Stretto fin su la cima dell’Aspromonte è tutto un susseguirsi di storie, leggende e miti. Storie di figure fantastiche, di eroi o di mostri arrivati da lontano oppure nati qui grazie ad intrecci nuovi. Sirene, ninfe, mostri marini, eroi di mondi imperfetti che hanno dato vita a pagine di libri, a leggende tramandate di padre in figlio. Misteri, soprattutto misteri della notte, del buio e del silenzio che scende tra le montagne dell’Aspromonte quando i pastori tornano stanchi alle loro abitazioni tenendo gli animali da pascolo al loro fianco seguiti dall’unico suono che si ode nella valle: l’eco di qualche campanaccio legato al collo di una capra che si dice serva a tenere lontano gli spiriti maligni perché è proprio al calare della notte che dimorano gli esseri più misteriosi, in queste zone tra pendii, rocce e precipizi attorno ai piccoli centri, ai paesi insidiati da creature sovrumane che vanno a complicare la già inclemente vita dei pastori; creature che seguendo gli spostamenti dell’uomo sono sopravvissute al mutare del tempo e alle condizioni sociali rappresentando il riflesso delle paure umane. Ed è proprio lungo il corso del fiume Amendolea, tra Gallicianò e Roghudi, nel cuore dell’Aspromonte greco, che alcune di queste creature trovano “spazio” e terrore nelle parole, nel timore della perdita: “un ragazzino che era al pascolo con le capre, non è ancora rientrato a casa, è tardi ormai, ìrthe i nìfta, den èchi lùstro ce pos canni ja na delèsci sto spìti…è arrivata la notte, non c’è luce e come fa a rientrare a casa?”.
La sentenza degli anziani è cruda, è triste: “o èppe o tu èfaghe i Naràda, o è caduto da qualche parte o l’ha divorato la Narada”.

Ma chi è la Narada?
E’ una donna bellissima, una di quelle creature notturne il cui immaginario è giunto fino a noi dai miti greci, bellissima ma con un unico difetto che la rende riconoscibile e quindi vulnerabile. I Naràde ene jinèke me ta pòdia ‘sce gadàra, le Narade sono donne con i piedi di asina ed è proprio questo particolare che le smaschera impedendogli di raggiungere i propri scopi. Ma quali sono questi scopi? La Narada è antropofaga, si nutre principalmente di bambini che cerca di strappare alle loro madri con ogni sorta di trucco e nello stesso tempo risponde al bisogno primario di “accoppiarsi” per procreare con gli uomini sposati cercando di ucciderne le mogli. Vittime sono perciò bambini, mogli e madri, ma pur essendo capaci di gesta sovrumane, di poter eseguire salti impressionanti, di volare su rami di sambuco, di possedere una forza incredibile e poter modificare la propria voce per fingersi all’occasione amichevoli cummàri, in tutti i racconti si rivelano poco intelligenti, poco scaltre. I loro dispetti e i loro tentativi di soddisfare quei bisogni primari che le spingono ad avvicinarsi all’abitato sono sempre vanificati da scuse spesso banali come si legge nei “Testi Neogreci di Calabria” (G. Rossi Taibi e G. Caracausi, Palermo 1994),  tra i racconti raccolti a Roghùdi: una Narada invitò una donna a lavare i panni al fiume, kummàre, purrò elàte na plìnome?  (commare domani mattina venite a lavare?) ma una volta arrivate lì la donna si accorse che quella in realtà era una Narada e le disse: kummàre, aminàte ‘mam bùndi, avlespetèmu ta rùcha ce to vrastàri, na pao fina sto spìti, jatì mu èmine ecì chàmme to kòscino ce mu to anascìzi to chirìdi, (commare, aspettate un momento, guardatemi la roba e la caldaia, affinché io vada fino a casa, perché mi è rimasto lì a terra il crivello e me lo straccia il porco).
Basterà questa scusa alquanto banale per smontare i piani dell’essere immondo. Rivelano quindi una intelligenza poco vivace e hanno bisogno di nascondersi nell’oscurità, si spostano infatti prevalentemente al calar del sole e scelgono di vivere lungo i corsi d’acqua dolce. Questa particolarità avvicina le Narade alle ninfe greche Naiadi, oltre all’evidente similarità sonora nel nome le accomuna l’essere abitanti dei fiumi, dei torrenti, a differenza delle Nereidi che abitano le “acque marine”. A tal proposito Michele Psello, filosofo bizantino nato a Nicomedia nel 1018 e morto tra il 1078 e il 1096, nel suo trattato “Le opere dei demoni” (ed. Sellerio, Palermo 1989), forse il più completo e noto del Medioevo, racconta di demoni che abitano i luoghi umidi e che si trasformano in uccelli o donne, i greci tali entità le chiamano Naiadi, Nereidi o Driadi tutte di genere femminile. Seguendo la mitologia greca Psello assegna le varie abitazioni indicando le acque marine per le Nereidi, le acque terrestri per le Naiadi e gli alberi per le Driadi. Considerando, quindi, che le Narade (dell’Aspromonte) abitano nei pressi di fiumi e acque dolci (come le Naiadi greche) e i nomi molti simili cominciamo a delineare lentamente la figura della Narada come unione del mito di origini greche portato fin qui dai greci e le successive modifiche dovute a condizioni antropologiche, ambientali e sociali.
Psello continua presentandoci i demoni che si aggirano per luoghi aridi, per lande inospitali (pensiamo alle rocche di Roghùdi, ai pendii di Gallicianò) e che si chiamano Onosceli. Questa figura è a mio avviso il tassello mancante, la chiave per spiegare la trasformazione e l’origine di un nuovo mito tutto aspromontano. Grazie a Onosceli. Infatti, possiamo spiegare la nascita dell’immagine fantastica della Narada e comprendere come questa sia frutto dell’unione di più miti arrivati fino a noi iniziando con i greci aspromontani.
Onosceli, letteralmente “dalle zampe di asina” (όνος + σκέλος), è una donna bellissima e ha in comune con le Narade la bellezza e la parte inferiore del corpo simile a quella di un’asina. E’ Plutarco a svelarci l’arcano, egli racconta che un tale Aristone Aristonimo da Efeso, figlio di Demostrato, a causa del suo odio verso le donne ingravidò un’asina, la quale poi quando fu il tempo partorì una bellissima fanciulla che fu chiamata appunto Onosceli, questo si legge in “Alcuni opusculi de le cose morali del diuino Plutarco” che a sua volta nomina la fonte in Aristotele, nel secondo libro delle cose mirabili.
Appare così evidente che i due miti, arrivati oralmente nelle terre di Aspromonte, ad un certo punto hanno dato vita alla Narada che perde i connotati della bontà (come per le Naiadi greche) e si trasforma in una creatura malvagia e del tutto istintiva. E’ curioso, altresì, sottolineare come a queste figure si possano avvicinare anche le Empuse, mostri soprannaturali femminili che avevano l’abitudine di terrorizzare i viaggiatori o chi percorreva i sentieri, a volte addirittura divorandoli. Potevano mutare l’aspetto per attirare i malcapitati ma a uno sguardo più attento mostravano dei tratti mostruosi che ne rivelavano la vera identità, come una gamba di sterco d’asina e una di bronzo. Tutte queste figure si riferiscono alla cerchia di Ecate.
Tornando, per un attimo ai racconti degli anziani, uno in particolare, riporta l’ordine nel caos, la luce nel buio e il bene vincitore sul male: è quello del ragazzino che si perde tra le montagne di Roghùdi, ma è proprio in quella condizione che riesce a scoprire il segreto che salverà l’intera comunità. Sottraendosi al destino di essere divorato, torna in paese e racconta tutto, chiede di far suonare le campane a mezzanotte e recitando una formula il ragazzino riesce ad uccidere tutte le Narade liberando il futuro dalla paura delle tenebre
ce otu epethànai òle, den mìni cammìa, ejàissa ta fàtti to ste ròkke abucàtu ston potamò*
(e così morirono tutte, non ne restò nessuna, caddero giù sulle rocce fino al fiume).
*Il fattùci mi è stato raccontato dalla compianta poetessa Francesca Tripodi, nativa di Chorìo tu Richudìu.

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