martedì 4 giugno 2013

Gli Argonauti - parte 1

Giasone porta a Pelia il vello d'oro mentre la Vittoria alata si accinge ad incoronarlo.
Lato A di un cratere (vaso a bocca larga in cui i greci e i romani mescolavano l'acqua e il vino da servire nei banchetti) pugliese a figure rosse su fondo nero del 340 a.C.–330 a.C.
Conservato al Louvre.


Il mito degli argonauti è uno dei più affascinanti della mitologia greca. Pelia era diventato re di Iolco dopo aver usurpato il trono del fratello Esone e aveva imprigionato l'intera famiglia. Promise che li avrebbe liberati se Giasone, fliglio di Esone gli avesse rubato e portato a Iolco il Vello d'oro (era la pelle dorata di un ariete alato che Ermes donò a Nefele come vedremo in un prossimo post). Così, guidati da Giasone, gli argonauti si imbarcarono sulla nave Argo per raggiungere le ostili terre della Colchide alla ricerca del Vello d'oro. Presero parte alla spedizione molti personaggli illustri: Acasto, figlio di Pelia, Ercole (Eracle), Anceo figlio di Poseidone, Castore e Polluce i dioscuri, ovvero i figli di Zeus nati dall'unione con Leda, Laerte futuro padre di Ulisse (Odisseo), Nauplio figlio di Poseidone avuto dall'unione con Amimone, Orfeo (quello di Orfeo e Euridice), Peleo (futuro padre di Achille), Polifemo l'arcade.

Al comando della spedizione era stato proposto Ercole (Eracle) che però rifiutò a favore di Giasone.
La prima tappa del viaggio fu l'isola di Lemno, abitata da sole donne, poichè a causa di una maledizione di Afridite queste avevano sterminato i loro uomini. Gli Argonauti furono ospitati nell'isola e in quei giorni vengono concepiti molti figli fino a quando Eracle invitò tutti a riprendere il viaggio ripartendo alla volta della Samotracia. Durante il viaggio attraversarono l'Ellesponto, poi il Bosforo e giunsero sulle rive del fiume Chio. Qui Ila, amico e compagno di Ercole, fu rapito da alcune Ninfe e non potè più tornare indietro. Ercole e Polifemo si misero alla sua ricerca ma non riuscirono a rientrare in tempo e Giasone decise di riprendere il viaggio senza di loro. Giunsero sull'isola di Bebrico, governata da re Amico, figlio di Poseidone, il quale si vantava di essere un ottimo pugile e volle sfidare gli argonauti. Nella spedizione c'erano anche Castore e Polluce, i dioscuri generati dalla relazione tra Leda e Zeus, e fu Polluce ad accettare la sfida. Polluce uccise il rivale e scatenò la furia del popolo sul quale gli argonauti ebbero vittoria facile saccheggiando il palazzo reale. Prima di ripartire sacrificarono 20 tori a Poseidone temendo di essere puniti per averne ucciso il figlio. Giunti sul promontorio Salmidesso, incontrarono il re Fineo che era perseguitatao da due Arpie. Gli argonauti lo liberarono ed essendo famoso profeta gli indicò la via più sicura su cui proseguire il viaggio. Come indicato da Fineo, seguirono una colomba liberata che li guidò attraverso il Bosforo evitando così gli scogli contro cui molte navi erano affondate. La penultima tappa fu l'isola di Dia, cara ad Ares, il dio della guerra. Qui furono attaccati da uccelli mostruosi che seppero evitare grazie ai consigli di Fineo giungendo così sulle coste della Colchide. A questo punto Giasone convocò una riunione per decidere come recuperare il Vello. Giasone  intendeva recarsi nella città di Ea, su cui regnava Eete, per rivendicare il prezioso oggetto in modo gentile. Se Eete si fosse rifiutato  avrebbero attaccato battaglia. La proposta fu accolta con un applauso. A loro si unì anche Augia, un fratellastro di Eete. Il gruppo avanzò attraverso il cimitero di Circe, dove si presentò ai loro occhi lo spettacolo dei cadaveri esposti sulle cime dei salici (era usanza di questa città seppellire solo le donne). Giunti al cospetto del re, questi dettò le sue condizioni, Giasone avrebbe dovuto:
  • aggiogare all'aratro due feroci tori dagli zoccoli di bronzo e dalle narici fiammeggianti; fiere bestie di proprietà di Efesto (Vulcano), il dio dell'ingegno;
  • tracciare quattro solchi nel terreno chiamato Campo di Marte e seminarci dei denti di drago: quelli, pochi e perduti, che Cadmo aveva seminato tempo addietro a Tebe.
Le condizioni erano quasi impossibili, ma intervenne Eros, il dio dell'amore, in suo aiuto facendo innamorare la figlia del re, Medea, di Giasone. Medea, abile maga, cercò di resistere a questa attrazione ma alla fine si convinse ad aiutare Giasone. Grazie ai suoi doni magici, Giasone superò entrambe abilmnete la prima prova, la seconda fu molto difficile in quanto seminando i denti di drago venivano fuori guerrieri dal terreno. Medea lanciò un altro potente incantesimo grazie al quale Giasone scagliò in mezzo a loro un enorme masso, creando una nube di polvere e molta confusione. I guerrieri iniziarono ad uccidersi fra loro e continuarono a farlo fino a quando Giasone non ebbe eliminato personalmente i pochi sopravvissuti.
Giunti al cospetto del re Eate, questi si rimangiò la parola. Allora Medea guidò Giasone sul luogo dove si trovava il vello che era protetto da un enorme drago. Il mostro, lungo più della loro nave, era figlio di Tifone, un gigante che in passato era stato ucciso a fatica da Zeus. Medea fece sfoggio di vari incantesimi, grazie ai quali riuscì ad ammaliare il drago fino a farlo addormentare. Giasone, approfittando del momento, staccò dai rami della quercia il vello d'oro e lo portò con sé nella fuga.

Continua...

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